venerdì 28 gennaio 2011

Per farla infinita

Per farla infinita, la vita o la merda. La storia o la lotta.


La malattia della scrittura ti coglie impreparato, ti fa correre lì sulla pagina bianca prima che il commiato del tuo pensiero ostruisca le vie del ricordo e trascolori tutto in un vagheggiato entusiasmo già smarrito. Ti manderà una cartolina nella notte il tuo cervello con quello che avevi formulato e che la giornata ha sbiancato.


Brezza marina qui nel covo candido del lunedi, partendo dai punti in-fermi d'un mondo sempre più immondo, tra le turbe intestinali e la stitichezza espressiva del XXI secolo. Com'è triste la carne, eppure è tutto ciò che cerchiamo.


Scrivere scopare viaggiare secondo Bolano in punto di morte conferenziere in volo sui poeti francesi. Banditi del senso. Banditi dal senso. Inattingibili. Ogni volta diversi.


L'Italia va a puttane, si sa, e noi ci accasciamo lentamente nella fatica mal vista d'accorgercene. Le sante le più bunga bungabili, misere le cortigiane di palazzo, in cerca di opportuna sistemazione e collaborazioniste non meno d'altre già giustiziate a loro tempo. I criminali senza fascino né pretese.

E poi ora per noi in coro Lele Mora prega per noi, meno male che Lula c'è estradate Berlusconi se volete Battisti in cambio.


È Dioniso a vincere in quest'aria fetida da basso impero? O è ancora – ritrovando l'Attali di Bruits – una quaresima camuffata da carnevale? Una rigorosa farsa atta semplicemente all'omeostasi del potere declinante? Apollo è malato, sformato, sfrondato, tra cattive abitudini quasi sempre appagate, ma in questa impenitente isola dei trionfi bacchici manca il rimescolamento, manca l'eversione, il ribaltamento dei ruoli. Restiamo sottostanti, inculabili, appesi e riverenti alle voglie o al parere di s'arroga di contare, di chi ancora è di identità (a che cosa?) che si riempe le tasche.


Gaudeamus igitur eppure parfois j'amerai mourir pour ne plus rien savoir.


E la stanchezza arriva perché una corsa a ostacoli ha coinvolto i miei alter ego prima di raggiunger il MetaTeatro stanotte...dai miei trecento passi in estrema pendente salita, da un treno che non arriva più causa neve viterbese ad un 907 del cui percorso è carica la mia memoria d'abitante di MonteMario da quella Piazza Igea, il bar con il piacente Barbone, la fermata davanti la farmacia e poi le scale per arrivare alla metro Cipro dove una volta quasi mi ruppi una caviglia e no non c'è tempo per far entrare prima che io esca dal convoglio e se le do una spallata è perché non esiste più delicatezza e se mi rispondi Madonna io ti dico Porca e procedo avanti, proprio fino a San Pietro aspettando un 23 che non passa, le mani in tasca il freddo in testa il ritardo incalza la pancia scalpita. Quindi quasi di corsa colpendo a tacchi il suolo, perforando la città tagliando via della Conciliazione e ripescando il 23 all'inizio del lungotevere con in groppa gli stessi volti che prendevano freddo in mia compagnia minuti prima...


E prima di scampanellare solo una crocchetta da mangiare. E come fa quella a star in mini-pants e infradito proprio oggi quando il sale sui campi è lì a testimoniare gli zero gradi??


E ripartendo allora da dove avevamo iniziato,


Scrivere prima che vengano a prenderti per aver fatto troppo chiasso, per aver voluto troppo, per esserti divertito troppo poco, per aver scosso troppi alberi delle certezze, per aver diffamato troppi monumenti, per aver dissacrato troppe cerimonie.

Scrivere prima che vengano a prenderti per non esser riuscito a (r)esistere, moroso e ipotecato in questo ostico condominio sociale. Povera arte in arte povera.

Scrivere prima che si spenga la luce, la lucerna che come spia ti permette di accedere altrove .

Scrivere prima che vengano a prenderti per esserti permesso di scrivere. Dall'ispirazione alla cospirazione.


Tarantiniane sproloquianti Iene a introdurre l'irriverente canovaccio pseudo-liturgico, nella blasfemia canzonatoria d'ogni comunione o comunicazione possibile. Con Artaud esserci per cacare tra le metastasi del linguaggio. Malato, corrotto, corroso, in punto di morte.


Così dis-organizzati come siamo eppure o ancora provvisti di quegli organi capaci di soddisfare le nostre malfunzioni vitali. Condotto (o condotta?) anale dunque. Ancora dall'escatologia alla scatologia, dal destino ultimo ai terminali resti, tra le fogne pronti a tuffarci. De cesso.


Ed invece per farla finita col giudizio di altissimi e nani, non riconciliati tagliare ancora le redini e le radici. Smascherarsi: scrivere, scopare, viaggiare, morire. E poi ricominciare.


Un inferno, un inverno, un infermo. Non si arriva da nessuna parte. Solo qualche illuminazione ogni tanto. Rarissima e adamantina come quell'anima stanca eppure di superiore inafferrabile incanto che ora vigila sul lampeggiamento verde nei pressi dell'ingresso.


E per San Giovanni ora l'87. Per casa mia i piedi soli. Per le prossime Impressions una settimana ancora.

venerdì 21 gennaio 2011

Un Bene Di Marca

Difficoltà di comprensione enfatizzate e sclerotizzate, al di là della scrittura lineare. Con non osservanza, ancora con tutto l'irrispetto dovuto.

Non si sente bene, come il mondo di questi tempi. Non si sente Bene, altrimenti non si sarebbe ancora appesi all'omologazione sovvenzionata e la rappresentazione si sarebbe ormai estinta. Non si vede bene, come il futuro di questi tempi. Non si vede Bene, si delirerebbe risoluti e feroci e disperati e dissennati un po' di più altrimenti.

Frammento estratto a caldo dalla prima delle Di Marchiane metateatrali impression d'afreak, ripescando la contemporaneità d'un urlo di vent'anni prima, un attentato alle ricerche teatrali...definitivamente sbalordito...scontato che da oltre due secoli la rappresentazione è qualsiasi compromesso per sopravvivere...Se creatività omologata è applicazione orale su testo teatrale scritto, è ribadita l'ignoranza sconcia secondo cui è sulla drammaturgia come testo teatrale che deve esercitarsi la creatività.


martedì 18 gennaio 2011

Free as a Freak


Pippo Di marca, uno di quei liquori alcolici di cui c'è sempre più astinenza, offrimi un po' della tua euforia da lassù dei tuoi trascorsi dei tuo percorsi dei tuo soccorsi. Dacci la tua anarchica linfa quotidiana, microfonato d'errori e d'intralci. Claudicante cerimoniale laico del lunedì di chiusura o d'apertura di nuovo corso.

Lautremont sul trono impacchettato alla Christo nel foyer imbiancato quasi illuminato di bianco più bianco che candido, battello ebbro dalle dinamiche imprecisate con sedie che seguono la corrente dello spettacolo e si girano con i colli e i tacchi da un lato all'altro, non un maremoto ma una piccola scossa, un'onda di sfogo elegante alle miserie sovvenzionate attuali.

Anticamera di un urlo spericolato, avanspettacolo di teste indomite, one man show a passo lento ma non attardato. Maldoror bello come l'incertezza dei movimenti muscolari nelle pieghe delle parti molli della regione cervicale posteriore e tu sei lì davanti a me e io vorrei baciarti dolcemente sul collo. E Michele spegni! buio e silenzio per il rito dopo Foxy Lady hendrixiana e la discesa dall'alto del divino reduce con scarpe da tennis e smoking e capo coperto di verde e spessissime lenti così come l'ingegno.

Qui si vola altrove e deragliatamente fuori dalla trama del raccontino prescritto, si omaggia Carmelo nel suo ritorcersi con tutta la mancanza di riverenza possibile al fu ministero di spettacolame di inizio novanta già clamorosamente cieco nei confronti di chi artifica e non mummifica. Si ritorna all'avanguardia, si rintraccia sulla scala la scaletta, si finisce con guest star poco abbottonata e molto attenta nel cesso risicato e lucido della nostra (de)generazione precarizzata dalle nostre incertezze ben più che dai nostri stenti. Baudelairizzandoci solo in parte poiché non in grado di finir sfiniti e fuori da noi perché ancora anche domani bisogna forse un po' studiare un po' lavorare un po' mangiare un po' viaggiare.

Esplosioni lirico-demenziali con trattato sugli stronzi in espansione della nostra rovinosa classe politica attuale e delle dis-cariche di cui si autoincensano. Quelli che si colgono a naso più che a occhio. Puzzano da lontano o d'improvviso. Da un Daniele voltagabbana alla sua omonima feroce. Rappresentanti e dei figli di puttana. E delle troie soprattutto e innominate. Ferite e feritoie esplorate e non più esplorabili. Voglia di rompere. Impressioni illuminate. Mostri esoterici. D'altri mondi che non questo derubricato a intrattenimento per polli d'allevamento e omologati alla finta trasgressione con brand. Dimostranti un altro modo di disconnetterci dal presente, afferrandolo per il collo e bastonandolo per quel coacervo di contraddizioni anomale in cui più o meno con brio siamo invischiati.

I soldi son un equivoco, sono sott'acqua come quelli del drugo Lebowskiano. Andate senza pace, seminate i vostri passi con tutta la scorrettezza che ci vuole. E tornate la settimana prossima.

lunedì 10 gennaio 2011

A pezzi (sempre più numerosi)


A pezzi perché non proprio in forma. Non rientrante in nessuna forma precisa. Piuttosto deforme (come sformare il corpo umano se non facendolo sfiancare?)

A pezzi perché esausti, esauriti, in crisi cronica, caos e agonia del non farcela più, crollati sotto il peso della città, del mondo, degli anni, del nostro universo interiore e interpersonale.

A pezzi perché frammentati, a compartimenti stagni in ognuno dei quali ristagna nostalgica e affannata la nostalgia di una unità (impossibile?)

A pezzi poiché attratti da forze centrifughe (tutti a tirarci in lungo e in largo lontano dal nostro centro), multitasking e malati di zapping così come la società dei media che ci ha plasmato e corroso.

A pezzi perché la testa non corrisponde alle azioni del corpo (tra il dire e il fare c'è di mezzo il corpo!) e viceversa, poiché il corpo non sa proseguire il percorso avviato lassù in cima..

A pezzi poiché separati, mancanti di collaborazione, di sinergia, di armonia, tra le parti. (concerto e coreografia di membra de-connesse – troppe volte visto?)

A pezzi perché caduti rovinosamente dall'alto dei nostri sogni o dei nostri piedistalli.

A pezzi poiché incapaci di guardarci nella nostra totalità, da una certa distanza. Dal di dentro qualche dettaglio di quelli più fondamentali e preziosi resta sempre fuori.

A pezzi perché divisi, dis-uniti, mancanti di comunicazione/connessione tra le parti e il tutto, costruiti da segmenti diversi, mutilati nella volontà, dis-integrati nel (dal) corpo sociale e personale.

A pezzi perché diamo/riceviamo solo porzioni limitate, fette contingentate di noi. Un corpo da ripartire. Da far ripartire.

A pezzi perché, in via cieca di specializzazione, impariamo ad usare benissimo una parte di noi dimenticandoci o perdendo la funzionalità del resto.

A pezzi perché prima o poi, per disattenzione, per stanchezza o sfiancamento, per ineluttabilità autoimposta, si fa scivolare l'incantesimo, lo si fa cadere, lo si rompe così come lo si fa con la testa di una bambola.

A pezzi perché di quel che c'era all'inizio della vita o dello spettacolo alla fine restano solo i resti, i cocci.

A pezzi perché incapaci di costruirsi, dispersi come si è in una corrente ben poco edificabile, dotati come si è di un sottosuolo psico-fisico tutt'altro che edificante.

A pezzi perché dis-eguali nel farsi, incompiutezza di video e di corpo in scena, di documenti e oggetti, foto, diapositive, parole, musica, elettricità, luce e silenzio.

E soprattutto e ancora, per non finire, senza pezzi di ricambio. Non ricambiati.

sabato 1 gennaio 2011

Mind FireWorks

2011: A SAM ODYSSEY

Pirotecnici giochi di fuoco e fiamme

al tempo del passaggio e del trapassamento da un numero di calendario al suo successivo.

Scoppia la testa e lo fa col botto.

Esplode come l'anno che s-viene.

Con i botti d'inizio.

Brindisi mentali per un girotondo di me con me.

Danza stellare per il rituale del cominciamento.